1948. L'affermazione della rappresentanza

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Data: 

Giovedì, Dicembre 13, 2018 - 09:30

Luogo: 

Fondazione Luigi Einaudi. Via Principe Amedeo 34, Torino

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ABSTRACTS

M. Troper, Qui est le titulaire de la souveraineté en France ?

Nous célébrons cette année le 70ème anniversaire de la constitution de la République italienne et le 60ème anniversaire de la constitution de la 5ème République française. Toutes deux proclament que la souveraineté appartient au peuple. Il y a pourtant quelques nuances. Selon la constitution française, qui reprend une formule de la constitution précédente, celle de 1946, ce qui appartient au peuple, c’est la souveraineté « nationale ». Selon la constitution italienne, c’est la « souveraineté » tout court. Selon la constitution française, le peuple exerce sa souveraineté par ses représentants et par la voie du référendum, selon la constitution italienne, « dans les formes et dans les limites de la constitution ».

Cependant, ni l’une ni l’autre de ces deux constitutions ne donne une définition de ce peuple et si l’on recherche quelle est la conception que s’en fait le Conseil constitutionnel français, on constate qu’il n’y a pas, selon sa jurisprudence un, mais plusieurs peuples souverains : celui qui exerce sa souveraineté par ses représentants, lorsque ceux-ci votent la loi, et qu’on peut concevoir comme formé de tous les citoyens, électeurs ou non ; celui qui correspond à une nation transcendant la génération actuelle; celui qui exerce sa souveraineté en forme constitutionnelle et par des représentants de deux types, les organes constituants originaires et dérivés, mais aussi le juge constitutionnel ; celui enfin qui se confond avec le corps électoral. Aucune de ces conceptions ne peut évidemment être considérée comme juste ou erronée et il s’agit seulement de constructions, mais elles sont toutes logiquement nécessaires, parce que toutes remplissent une fonction, et que chacune permet de justifier un type différent de décision ou d’institution.

 

F. Loreto, Il lavoro come fondamento della cittadinanza e il ruolo del sindacato

La relazione si dividerà in due parti. Nella prima verrà analizzato il nesso stretto tra democrazia e lavoro che i costituenti vollero inserire come pilastro centrale dell’intero edificio repubblicano; si trattò dell’innovazione principale immessa all’interno del nuovo ordinamento, adottata soprattutto come elemento di rottura rispetto alla vicenda storica nazionale (prima liberale e poi fascista), ma anche come elemento di distinzione rispetto ad altri sistemi costituzionali in via di definizione. Partendo dalla lettura dei Principi fondamentali (in particolare dai primi quattro articoli della Carta), per arrivare all’analisi del Titolo III sui Rapporti economici, la questione del lavoro sarà esaminata in rapporto ai temi della sovranità popolare e della partecipazione dei cittadini, con i loro diritti e doveri, alla vita economica e politica della nazione. Uno spazio specifico sarà rivolto ad approfondire le discussioni sull’ordinamento sindacale (art. 39) e sullo sciopero (art. 40).

Nella seconda parte saranno presi in considerazione i principali avvenimenti del 1948, con particolare riguardo alle vicende politiche che seguirono le elezioni del 18 aprile e l’attentato a Togliatti del 14 luglio, da cui scaturirono le scissioni sindacali. La fine della Cgil unitaria e la nascita di Cisl e Uil avviarono la lunga stagione del pluralismo sindacale, in cui la rappresentanza dei lavoratori si fece più complessa e incerta, come mostrò la mancata attuazione dell’art. 39. Inoltre, nonostante il “monopolio” ottenuto dalle tre Confederazioni (dapprima come prerogativa di fatto, acquisita tra anni ’50 e ’60, quindi come disposizione di diritto, grazie alla legge 300/1970), dagli anni ‘80 la rappresentanza sindacale è entrata in crisi a causa di limiti interni e fattori esogeni. A tal punto che, nel recente dibattito teso a costruire un sistema di regole certe e condivise (anche con il contributo dei datori di lavoro), suscita crescenti favori, ma anche accese polemiche, l’idea di “tornare alla Costituzione”.

 

F. Balestracci, La nazione divisa. La Germania tra doppia statualità e democratizzazione incompiuta

All’inizio della Guerra Fredda e della divisione del mondo in due sfere di potere nella Germania sconfitta e militarmente occupata maturano le condizioni per la divisione dello Stato-nazione. Nell’estate 1949 nasceva all’Ovest la Repubblica federale di Germania, che agli occhi della maggioranza e dei suoi artefici rappresentava un stato “provvisorio”. La costituzione o Grundgesetz valeva infatti come una sorta di statuto organizzativo di uno stato federale con una distribuzione decentralizzata e controbilanciata del potere. Nell’ottobre dello stesso anno si costituiva nella zona orientale la Repubblica democratica tedesca, una “democrazia del popolo”, il cui modello costituzionale, anch’esso pensato per non pregiudicare la riunificazione, era basato sul principio marxista-leninista del centralismo democratico. Alla provvisorietà o flessibilità della costituzione occidentale si è alternativamente attribuita la capacità di offrire stabilità e continuità alle istituzioni oppure di permettere la “progressiva liberalizzazione” del sistema politico, oppure infine dopo l’89 la precondizione alla “lunga marcia verso l’Occidente” della nazione. Verso la Germania orientale e il suo sistema di rappresentanza la storiografia ha maturato negli ultimi anni una visione complessa, che prende le distanze dai modelli di totalitarismo e policrazia a lungo sostenuti dalla storiografia occidentale. Di fatto in nessuno dei due Stati le tradizioni autoritarie vennero spazzate via dalle cesure del 1945 o del 1949. Sarebbero stati semmai i “dinamici anni” Sessanta all’Ovest e le riforme degli anni Settanta all’Est a favorire l’evoluzione del sistema rappresentativo e l’integrazione della società.

L’intervento cercherà di valutare il rapporto tra continuità e discontinuità nella costituzione di ciascuno Stato tedesco rispetto ai modelli di rappresentanza precedenti, weimariano e nazionalsocialista, tenendo conto dei fattori e dei processi politici, sociali ed economici che hanno contribuito in ciascun paese alla costruzione della cittadinanza di uomini e donne di diverso stato civile e sociale.

 

S. Cassese, Abstract

Democrazia, democrazia rappresentativa, rappresentanza, sovranità popolare sono tutte espressioni alle quali è stato dato un sovrappiù di significati. Donde la necessità di ricostruirne la storia fino al significato odierno. La rappresentanza e il suo significato in Hobbes, gli svolgimenti di Sieyès, le applicazioni di Burke, Madison, Tocqueville, Constant, J.S. Mill. Successione di criterio censitario e di criterio capacitario in Italia, fino a Giolitti e costruzione della teoria orlandiana della rappresentanza come “designazione di capacità”. Sue origini. Crisi dei partiti e rilevanza per la rappresentanza e crisi della rappresentanza stessa. Epistocrazia e democrazia diretta.

 

G. Franzinetti, Sistemi di rappresentanza e prassi politica in europa orientale, 1945-1968

I sistemi di rappresentanza esteuropei  possono essere facilmente presentati come prodotti di un modello sovietico monolitico. Partendo da questo presupposto si possono presentare interpretazioni in senso intenzionalistico o in senso funzionalistico (la politica sovietica e comunista come risultato di un piano preordinato, oppure come risultante di una serie di processi interni ed esterni). La diversità di interpretazioni si riflette anche nelle spiegazioni dell’emergere della Guerra Fredda (almeno a partire dal 1947). Entrambi gli approcci posso essere utilizzati.

Nella primissima fase (pre-Guerra Fredda, 1945-47) le dinamiche politiche dei diversi paesi esteuropei sono in gran parte condizionate dall’attesa della conclusione dei negoziati per i trattati di pace per gli stati sconfitti (ex alleati dell’Asse). Gli stati vittime dell’aggressione dell’Asse erano comunque soggetti ad alti condizionamenti, dettati dalla realtà militare e politica. Pertanto i risultati delle primissime consultazioni politiche (sino al 1948) furono contradditori, riflettendo situazioni assai disparate.

Con l’inizio della Guerra Fredda, e della sua fase più intensa (talvolta chiamato ‘stalinismo alto’, 1948-1955) si affermano modelli istituzionali più chiaramente ispirati a quello sovietico (anche nel caso della Jugoslavia). Questa fase riflette una prima forma di stabilizzazione politica.

Nel 1955 (se non prima) emergono i primi sintomi di instabilità politica, con fratture politiche più evidenti (Polonia, Ungheria) che furono però risolte con una nuova (e più duratura) stabilizzazione politica: il rientro di Gomułka in Polonia, il kadarismo in Ungheria, l’innalzamento del Muro di Berlino, ma soprattutto la seconda ondata di collettivizzazione dell’agricoltura. Questa nuova stabilizzazione segnò, in effetti, le caratteristiche fondamentali di quel che fu chiamato il ‘socialismo realmente esistente’. Gli anni immediatamente successivi (1962-1968) perfezionarono ulteriormente tale processo, con significative innovazioni nel quadro del socialismo maturo.

 

F. Bonini, La rappresentazione nella Costituzione Italiana.

L’asse del sistema della rappresentanza scaturito dalla vicenda costituente è rappresentano dal partito e dal sistema dei partiti (ivi comprendendo anche il “quarto partito” a suo tempo evocato da De Gasperi), per la prima volta iscritti nel testo di una costituzione democratica, sia pure in un gioco di preterizioni che ben chiarisce la identità dei diversi partiti diversamente collocati e polarizzati agonisticamente e non certo irenicamente sui cleaveges del secondo dopoguerra.

In luogo delle dinamiche evocate nell’ordine del giorno Perassi sulla “razionalizzazione” il processo di regolazione, dunque l’assetto della rappresentanza infatti è meglio definito dalla formula di Mortati, che cataloga (nel 1957) le “controforze” per far rientrare quella che è stata definita (ma la definizione non è accettata in Costituente) la “democrazia dei partiti”, nel circuito dei pesi e contrappesi che qualifica la democrazia rappresentativa.

Passerò poi a definire i termini cronologici della vigenza di tale modello, periodizzato da due referendum abrogativi, 1978 e 1993.

Infine si ritornerà sugli attori del processo, in relazione all’evoluzione della forma partito, che l’Italia, pur con le sue evidenti peculiarità, condivide con le democrazie europee.

 

E. Mana, Donne al voto: cittadinanza e rappresentanza 1945-1948. Un percorso tra Italia e Francia

Il tema è stato ampiamente studiato, soprattutto negli ultimi venti anni e con approcci e prospettive rinnovate.

L’intervento non si propone pertanto di introdurre elementi di radicale novità, quanto di proporre una riflessione sulle questioni interpretative e comparative.

Francia e Italia sono – come è ampiamente noto - tra gli ultimi paesi in Europa ad accordare alle donne i diritti politici, rispettivamente con l’ordinanza del 21 aprile 1944 e con il decreto del 1 febbraio 1945.

In primo luogo si cercherà dunque di offrire uno sguardo alle interpretazioni sulle ragioni del “ritardo”, senza indulgere su una lettura in termini di “concessione dall’alto” e di semplice percezione della irreversibilità della situazione.

Se pure in quel tornante sostanzialmente dimenticati e non richiamati esplicitamente, movimenti femminili e iniziative di richiesta del voto alle donne avevano attraversato infatti almeno un secolo della storia di entrambi i paesi: dal 1848 per l’Italia, anche da prima per la Francia; e ai movimenti suffragisti si erano affiancati progetti, discussioni, passaggi parlamentari e legislativi. Ciò che colpisce e su cui vale la pena di portare la attenzione e la riflessione è il decisivo coinvolgimento, in questa fase risolutiva e in entrambi i paesi, delle culture politiche di ispirazione di sinistra e cattolica, che stanno alla base delle più importanti organizzazioni partitiche di massa; a fronte di un sostanziale silenzio e assenza dalla scena politica delle culture politiche e dei partiti laici e, in particolare per quanto riguarda l’Italia, delle culture democratiche/repubblicane di origine e tradizione risorgimentale.

Nella seconda parte dell’intervento si cercherà di focalizzare l’attenzione sull’esercizio del voto delle donne, attingendo agli studi sulla mobilitazione dell’elettorato femminile attraverso la produzione e diffusione di messaggi mirati; e di offrire qualche dato sulla reale partecipazione alle urne.

Infine si accennerà alla questione della rappresentanza femminile, ossia ai profili e ai ruoli delle donne candidate ed elette.

 

G. Filippetta, Inquietudini della sovranità 1943-1948

La Costituzione repubblicana è il risultato di processi storici e giuridici che investono un arco di tempo più vasto di quello della Costituente e gli ordinamenti creati nel territorio dalle bande partigiane, le zone libere e le repubbliche sono tutti ordini giuridici instaurati in vista della creazione stabile e definitiva di un nuovo ordine costituzionale. Sono dunque momenti di un processo costituente e fatti costituenti. L’autogoverno partigiano, come fatto costituente, realizza una radicale svolta sul terreno giuridico-istituzionale perché dà la massima visibilità e intensità alla potenza ordinativa delle bande partigiane, alla partecipazione democratica che lo sorregge e alla fonte che lo alimenta: la sovranità popolare come sovranità dei singoli. La sovranità dei singoli fa della banda partigiana una costellazione sovrana e la banda esercita questa sovranità ordinando giuridicamente il territorio che controlla, costituendo così aree di legalità nella terra di nessuno giuridica del centro-nord. Questo ordine giuridico del territorio partigiano vive, come l’ordine interno della banda, dell’autonomia e della partecipazione del singolo: gli organi, le procedure, le regolamentazioni del nuovo ordine sono definiti attraverso il coinvolgimento dei cittadini, provando a riprodurre quella democrazia dal basso che la banda reca in sé come marchio di origine.

Le bande, come contenitori delle sovranità individuali, sono le protagoniste della Resistenza e la partitizzazione delle formazioni partigiane, nella realtà della guerra civile, è qualcosa di ben diverso dalla progressiva trasformazione delle bande in eserciti di partito. La partitizzazione è il tentativo dei partiti – durante la guerra civile ancora per nulla radicati nella società - di intitolarsi le bande, promettendo armi, denaro e onori, con l’obiettivo di fare proselitismo tra i partigiani e di acquistare prestigio, credibilità e legittimazione tra la popolazione per proporsi come i protagonisti della riedificazione dello Stato. Durante la guerra civile la sovranità popolare dei singoli non riesce ancora a riconoscere in misura consistente nei partiti il proprio canale di manifestazione e il proprio luogo di esercizio.

Scacciati i tedeschi e vinti i fascisti, si apre la fase del passaggio dall’eccezionalità della moralità armata alla normalità della ‘vita civile’, dalla democrazia dei fucili partigiani a quella delle tessere di partito. Si tratta però di un processo che avverrà nel tempo e con il tempo, che si concluderà solo nel 1948 e che si confronta con questioni fondamentali: come fare in modo che la sovranità, dopo l'8 settembre disseminatasi nei singoli, poi entrata nei contenitori nelle bande partigiane e da queste ulteriormente disseminata tra i civili delle zone da esse controllate e governate, possa tornare dentro l'alveo statale? Quale forma di Stato edificare per collegare la sovranità dei singoli allo Stato? Le rivolte partigiane dell’estate del 1946 mostrano che a quella data i partiti devono ancora confrontarsi con la sovranità partigiana dei singoli in armi.

In effetti all’indomani della Liberazione singoli e partiti stanno gli uni davanti agli altri, ma tra loro c'è il vuoto scavato dalla scomparsa delle bande (imposta dagli Alleati) e dalla fragilità già consunta dei CLN. Riempire questo vuoto, o almeno costruire un ponte che lo valichi, è indispensabile per arrivare alla costruzione di quel nuovo Stato che certo i partiti non possono pensare di edificare senza avere con sé la forza sovrana dei singoli. Il partito nuovo di Togliatti, il partito di governo di De Gasperi e il partito di classe di Nenni sono quel ponte. Un ponte che conduce alla Costituzione del 1947. Ma la Costituzione repubblicana non è solo il prodotto degli accordi e dei compromessi tra i partiti, perché essa nasce dai valori e dall'esperienza umana e giuridica della Resistenza come progetto di liberazione e di emancipazione degli uomini e delle donne e di promozione della loro autonomia, della loro libertà e della loro responsabilità. La cittadinanza repubblicana, che la Costituzione definisce come insieme di diritti e di doveri in cui si esprime la sovranità popolare quale sovranità del singolo cittadino, consiste proprio nell'appartenenza del cittadino a questo progetto. Un progetto che viene direttamente dal tempo della guerra partigiana e che di quella guerra mantiene l'obiettivo di fondo: fare della libertà, dell'autonomia e della dignità del singolo le matrici di un uomo nuovo, di un 'uomo mai più fascista'. Un progetto che, nel segno della sovranità popolare come sovranità dei singoli (Crisafulli, Barile) coniuga rappresentanza politica e democrazia diretta, in particolare attraverso gli artt. 49 e 75 Cost. che, recependo la rottura storica che l'autogoverno e la sovranità orizzontale dell'ordine giuridico partigiano segnano rispetto alla verticalità dello Stato liberale, fanno della democrazia repubblicana una democrazia non esclusivamente rappresentativa, ma mista.

 

Paolo Soddu,  Le culture politiche e la rappresentanza

La relazione si concentra su un’analisi della questione della rappresentanza entro la vicenda unitaria, sulla base della considerazione che, pur all’interno di indiscusse continuità, si manifestano due grandi fratture: con i due conflitti mondiali. Con la Grande Guerra si creano le condizioni per superare la rappresentanza liberale e l’affermarsi del partito-Stato, identificato con l’ideologia fascista , che comprendeva al suo interno l’unica possibile pratica di cittadinanza. Con la conclusione del secondo conflitto mondiale,  invece, nel quadro dell’ondata di democratizzazione che investe i paesi già dominati dai fascismi e dalle potenze imperiali, si svolgono le prime esperienze di democrazia pluralista entro le quali si inscrive il caso italiano e quindi anche il primo autentico misurarsi tra le culture politiche intorno ai fondamenti della rappresentanza.

Sulla base essenzialmente degli atti della Seconda Sottocommissione dell’Assemblea Costituente,  scelta come fonte principale perché sintetizza efficacemente lo svilupparsi del confronto e del dialogo tra le diverse concezioni della rappresentanza e della rappresentati, si ricostruisce il prendere forma della rappresentanza  democratica. Quel lavoro di faticosa messa a punto, passo dopo passo, del testo  costituzionale mostra come  intorno alla definizione della rappresentanza si avvertisse il peso del passato e delle esperienze entro le quali si era incamminata l’unità nazionale. Con questa eredità si misuravano le diverse interpretazioni della rappresentanza che le culture politiche coltivavano. 

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